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Il vino ci spiega chi siamo

Eric Asimov, responsabile della rubrica sui vini del New York Times, una volta al mese propone ai suoi lettori di acquistare una terna di bottiglie, assimilabili per caratteristiche, e di fornire un commento in fondo alla pagina. Di solito si tratta di bottiglie al di fuori dei nomi più commerciali, ma nella lista dei vini dello scorso dicembre qualcosa è cambiato. Asimov, infatti, ha fatto ai lettori una proposta diversa: anziché valutare piccoli produttori, per una volta ha chiamato in causa tre vini facilmente reperibili in qualsiasi supermercato del paese. Ecco allora apparire tre vini californiani ampiamente noti al grande pubblico americano: il Pinot nero di Meiomi; l’Apothic Red (un uvaggio di zinfandel, merlot, syrah e cabernet sauvignon) e il The Prisoner (zinfandel, cabernet sauvignon, petite syrah, syrah, e bonarda). “Che li amiate o li odiate” – aveva scritto Asimov – “è giusto conoscerli.

Commenti feroci

I commenti non si sono fatti attendere. Quasi ottocento, a volte entusiasti, altre volte dai toni non proprio urbani, o, per dirla con le parole di Asimov: “pieni di indignazione, disprezzo e generale scontento”. A fronte di un ristretto gruppo di consumatori in grado di valutare con distaccata serenità entrambe le categorie, la maggior parte dei commentatori appariva ostilmente schierata su uno dei due fronti.
Da una parte i frequentatori dei vini della grande distribuzione, disinteressati a varcare “il reame delle discussioni da snob“; quelli che “apprezzano la coerenza e la familiarità e non vogliono essere sfidati. Non sono interessati a variazioni di sapore vintage, alle espressioni del suolo o ad altri argomenti su cui i fanatici del vino potrebbero passare un’ora a discutere.” Dall’altro il ristretto mondo di chi vede nel vino non “un prodotto segnato sulla lista della spesa” ma una creatura viva, capace di “sorprenderli, ingannarli, deluderli; in definitiva di smuoverli emotivamente.” Inorriditi dall’invito, “come se la curiosità espressa a proposito di quelle bottiglie equivalesse a trasgredire un sacro vincolo di fiducia”, ricorrevano alle armi del sarcasmo, quando non a vere e proprie manifestazioni di disprezzo.

Una guerra tra mondi diversi

Questa “rumorosa collisione di mondi che di solito non si incontrano” – secondo Asimov – non era solo l’esito più scontato della proposta, ma l’occasione ideale per riflettere su quanto il vino possa dividere le platee e suscitare le emozioni più diverse. In altre parole, la maniera migliore di ficcarsi in un mare di guai.
Questi due gruppi – dice Asimov – spesso non sono in grado di comprendere le ragioni dell’altro: un insopprimibile bisogno di affibbiare ragionamenti vicini al loro modo di pensare diventa l’unica via per giustificare gusti altrimenti considerati bizzarri. Gli uni motivano i gusti commerciali degli avversari con la loro scarsa conoscenza del mondo del vino, confidando sempre in una virtuosa maturazione del loro gusto. Gli altri irridono le fissazioni dei più appassionati riducendole a masturbazioni da esibizionisti, salvo poi appellarsi ai più preparati per cercare conferme al loro ragionamento.

Una via di mezzo è possibile?

Asimov, pur appartenendo alla categoria degli appassionati, e non negando un certo interesse per l’evangelizzazione, non ama gli schieramenti netti e preferisce proporre vie mediane. Se è più che comprensibile il desiderio degli appassionati di coinvolgere amici e conoscenti nell’avvincente mondo del vino, lo è meno la foga da proselitista di chi non vuole ammettere che tra quegli amici ci sarà sempre chi beve vino semplicemente per bere vino. Se alcuni “preferiscono di gran lunga mangiare hamburger al fast food, e non cenare nell’ottimo bistrot all’angolo, o esplorare i menu degustazione di chef visionari” non meritano per questo di essere bollati come inferiori. Di contro, gli avversari potrebbero smettere di vedere nei bevitori appassionati un unico branco di sprezzanti zeloti, dediti alla ricerca di introvabili etichette: “i fan degli Apothic dovrebbero essere liberi di gustare questi vini senza disapprovazione” tuttavia “non dovrebbero aspettarsi che i critici del vino parlino con approvazione di quelle bottiglie“. Come dire: va bene ascoltare Bohemian Rhapsody nonostante le recensioni critiche; non va bene farlo insultando quei critici, magari tormentati dal pensiero di stare ascoltando qualcosa di sbagliato.

Questioni irrisolte

La conclusione? “Nessuno dovrebbe pensare che il vino che ha scelto di bere riveli qualcosa di sé. Semiotica e marketing a parte, le connotazioni affibbiate alla scelta di un vino sono profondamente dannose sia per la cultura del vino americano sia ai fini di una civile discussione sull’argomento.” Insomma, “bevi ciò che vuoi perché ti piace, non perché rappresenta qualcosa o perché è uno status symbol”. Un ragionamento sensato, che suscita però qualche domanda. Una soprattutto: il vino che scegliamo di bere davvero non rivela niente di noi?

Gherardo Fabretti

 

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